Lasciate stare le banche popolari

Il modello cooperativo degli istituti di credito legati al territorio, è messo in discussione. Il presidente di Assopopolari spiega come andrebbe difeso e perchè i numeri gli danno ragione. E ricorda che ci sono banche che non hanno mai venduto derivati, fatto subprime, emesso subordinate…
[auth href=”http://www.worldexcellence.it/registrazione/” text=”Per leggere l’intero articolo devi essere un utente registrato.
Clicca qui per registrarti gratis adesso o esegui il login per continuare.”]Il 2017 sarà un anno importante per le banche popolari. La Corte Costituzionale scioglierà definitivamente il nodo sul cambio della governance e nel frattempo si capirà se la fusione tra Banco Popolare e Bpm sarà un caso isolato oppure l’inizio di una trasformazione più profonda. Nel frattempo anche il mondo delle Bcc va incontro a mutamenti epocali. Con il raggruppamento sotto diverse holding: nel giro di poco tempo 250 banche si uniranno in tre o quattro gruppi di respiro nazionale. Con Corrado Sforza Fogliani, presidente di Assopopolari, proviamo a immaginare quale sarà il futuro del credito cooperativo.

Cominciamo con la domanda più facile: che cosa sta accadendo?
Il modello cooperativo sembra messo in discussione, nella forma e in quello spirito che caratterizza le banche di territorio al di là della loro dimensione. Noi siamo decisi a difenderlo. I numeri ci danno ragione. Abbiamo una patrimonializzazione di categoria che è il doppio di quella richiesta. Difendiamo il regime di concorrenza nel settore,  che solo le banche territoriali assicurano. Difendiamo il solido legame con l’economia reale che rappresentano. È della primavera scorsa la notizia che il ministro delle Finanze tedesco e quello inglese sono intervenuti presso l’Ue proprio per la tutela delle banche di territorio. La generale constatazione che la Borsa punisce le banche che fanno credito deve oggi far riflettere il mondo dell’impresa, ma non solo.
In Italia lo Stato torna azionista delle banche. La stagione delle privatizzazioni si è chiusa o quella in corso è solamente una pausa?
Le strutture del credito vanno affrancate da conduzioni pubbliche e para- pubbliche che le legano a un passato del tutto superato. I risparmiatori e gli investitori non possono essere chiamati a rispondere di responsabilità che, anche nell’allocazione del risparmio, fanno capo, in ultima analisi (e da sempre), allo Stato. Che infatti ne rispondeva.
Che cosa vuol dire?
Che bisogna impedire la proliferazione di iniziative come i diversi fondi allestiti per i salvataggi bancari.

E perché?

Perché mettono a carico delle banche gestite bene il soccorso alle concorrenti in dissesto. Come si è visto si tratta di iniziative con il fiato corto.
Se non intervengono le altre banche si impone la presenza dello Stato che però non vi piace. Come uscirne?
È urgente il ritorno allo Stato di diritto, anzitutto attraverso una giustizia civile efficiente, che ripristini il valore dei contratti privati, anche accorciando i tempi delle procedure concorsuali. Bisogna inoltre chiedersi se la politica  monetaria sia davvero in grado di farci superare il momento critico che attraversa l’Europa.
Non le piace quello che fa Draghi?
Ricordo che la politica dei tassi d’interesse negativi o al minimo è all’origine della crisi del 2007. Adottarla non induce «ad affamare la bestia» (come si dice negli Stati Uniti) della spesa pubblica, né a ridurre il debito che imbriglia l’iniziativa privata. II sistema bancario non può ancora essere condizionato dal pericolo di una fuga di denaro. Non può essere anchilosato da un eccesso di regolamentazione, proveniente proprio da un’istituzione che ha posto la proporzionalità della rappresentanza tra i suoi principi fondamentali. In qualche momento, abbiamo perfino avuto l’impressione che sia in atto una campagna preordinata contro le banche della nostra categoria.

Vuol dire che istituzioni europee vogliono le banche a taglia unica privilegiando il modello della Spa?

Diciamo che non hanno mostrato interesse per il nostro modello di governance. Senza accorgersi che ci sono popolari che non hanno applicato l’anatocismo ancora anni prima che venisse vietato, non hanno venduto derivati, non hanno fatto subprime (neppure all’italiana), non hanno emesso una subordinata. E hanno un Tier1 anche superiore al 18%. Eppure sono cose che forse a Francoforte trascurano e che non si riesce a far scrivere da nessun giornale. Non per dire che altri comportamenti siano scorretti, perché non lo sono, ma semplicemente perché sono una notizia e i giornali vendono notizie. Però non c’è niente da fare. Non passa.
È anche vero che la banche non fanno molto per rendersi simpatiche. Ultimamente hanno perso anche l’affidabilità. Non è proprio una situazione splendida, non trova?
Prendersela con le banche non conviene a nessuno. Se non a chi pensa di poter ridurre il mercato del credito a un insieme di poche presenze che poi facilmente farebbero valere la propria posizione oligopolistica. Le banche di territorio sono il primo ostacolo a un disegno del genere. Per questo sono osteggiate.Un complotto ai danni delle banche popolari? Difficile da credere…
Le popolari fanno gola perché sono le più patrimonializzate del sistema. Fare i banchieri è sempre stato difficile. Ma oggi è difficile anche farlo serenamente: in caso di imprese in crisi, prefetti e sindacati chiedono che non venga tagliato il credito, che si evitino i licenziamenti. Chi si rifiuta è messo alla gogna ma chi lo fa, finisce davanti al giudice penale per abuso di credito.E l’Unione Europea?
L’Europa dei burocrati ci mette pesantemente del suo. La normativa sulla risoluzione delle crisi bancarie attraverso il bail-in è stata recepita con scarsa attenzione dal Parlamento italiano. Contro di essa si è espresso anche il Fondo monetario internazionale.Siamo alle solite però: la colpa è sempre degli altri. Mai possibile che i banchieri non abbiano mai responsabilità?
Tocca ai magistrati individuare le responsabilità. Vorrei ricordare, però, che nel diritto penale le colpe sono personali e non possono essere attribuite all’intero sistema. Invece l’opinione pubblica è inondata di dubbi, di remote eventualità, di possibili pericoli. Le banche che vanno bene sono state gravate dall’obbligo di mettere in sicurezza alcune banche da tempo commissariate. Fra l’altro tutte casse di risparmio o ex casse di risparmio, a eccezione di una sola popolare. Ma correggere informazioni errate al proposito è stato molto difficile.Ancora un’assoluzione per il credito facile?
Le banche hanno fatto le cose non nel modo in cui avevano pensato di farlo, ma nel modo in cui è stato loro imposto. Col risultato, per esempio, di creare il problema delle obbligazioni subordinate che altrimenti non ci sarebbe stato. Una struttura di regole così complicato da aver spinto un colosso come Barclays a pagare 250 milioni a Mediobanca perché rilevasse i suoi sportelli. Il venditore che paga il compratore pur di liberarsi delle proprie  attività. Converrà che c’è qualcosa di malato in questa inversione dei ruoli. Soprattutto dovrebbero riflettere gli imprenditori che credono ancora in un sistema libero di economia e non solo nei sussidi di uno Stato onnivoro.

Da questa descrizione l’Italia appare come un Paese dov’è difficile fare tutto. Non solo impresa ma anche banca. Forse un eccesso di pessimismo, non crede?

Chi può continuare a operare serenamente sul mercato del credito nella situazione attuale, in un paese nel quale lo Stato, nel silenzio assordante di ogni altra istituzione, lascia spendere il proprio nome come garante in una megagalattica operazione in favore di chi raccoglie ma non fa credito? Siamo in una situazione in cui lo Stato parteggia per una parte in concorrenza le altre.
Ogni  riferimento a Poste Italiane non è casuale. Le banche popolari come si collocano in questa partita?
Il credito popolare e cooperativo è oggi una realtà in continua espansione. Nel mondo sono attivi oltre 200mila istituti di territorio che hanno 435 milioni di soci, 700 milioni di clienti, 9mila miliardi di euro di raccolta e 7mila di impieghi. Assopopolari (oggi Associazione di banche popolari e del territorio) conta 63 banche associate, 52 società finanziarie e 150 banche corrispondenti per un complesso di 1,3 milioni di soci, 12,4 milioni di clienti, 8.700 dipendenti, 450 miliardi di attivo. La quota di mercato è pari al 25% sia nella raccolta sia negli impieghi.
Qual è lo scenario fuori dall’Italia?
La cooperazione bancaria è, per la sua stessa storia, ben radicata nel Nordamerica e in Europa. Oggi appare in forte-espansione in Africa e in Sudamerica. Crescenti manifestazioni di interesse provengono dalla Cina, dove le banche cooperative hanno una radicata tradizione. Ovunque è apprezzato il fatto che le banche territoriali non vanno e vengono dal loro territorio. Sono anzi inscindibilmente legate (per dirla con Adam Smith: non per beneficenza, ma nel loro stesso interesse) al progresso e allo sviluppo dell’area in cui sono insediate, con quote di mercato che ne fanno, come bene è stato detto, dei «piccoli giganti».

Che cosa vuol dire in concreto?

Guardate alle condizioni del credito nel nostro Sud. È stato colpito, dopo l’eliminazione delle banche di territorio, da una crisi di liquidità che tutti conoscono ma di cui nessuno parla: le poche grosse banche rimaste erogano finanziamenti dove già (e se) gli conviene.
Sta descrivendo il piccolo mondo antico che andava bene a metà dell’800 quando le prime popolari videro la luce. Ma adesso?
Il loro ruolo resta fondamentale per l’economia locale. Le banche popolari investono nel loro territorio quanto in esso raccolgono. Esaltano la mutualità che ci caratterizza (la nostra forza è rappresentata dal rapporto socio-cliente) sotto un particolare aspetto. Quello della «solidarietà di territorio», che non è chiusura ma sinergia. Hanno, cosa che in molti trascurano, nel loro stesso modo di fare banca, l’economia di scala migliore. Il monitoraggio dei clienti è esercitato da un controllo sociale che va ben al di la dei contratti. Le banche locali, per questo, sono contraddistinte in assoluto dai migliori indici di redditività e da una migliore qualità del credito. E anche per questo sono state in altri periodi storici assediate e soggette a indebite forzature.
Per esempio?
Nel 1927 il governo dispose a quelle con depositi inferiori a 5 milioni di fondersi o essere poste in liquidazione. Quelle con depositi inferiori a 10 milioni venivano costrette a confluire in qualche altra banca della categoria.
La storia si ripete considerando il decreto che impone il cambio di governance…
Oggi il nostro paese è tenuto in scacco da quello che abbiamo chiamato «il vento del bonapartismo economico». E questo nonostante l’esperienza degli Stati Uniti e le recenti vicende dimostrino che il gigantismo bancario non è la cura di tutti i mali, non rende necessariamente il sistema più stabile. Spesso non contribuisce neppure a una sua maggior efficienza.
Che cos’è il bonapartismo economico?
Qualcuno, come l’economista bolognese Stefano Zamagni ha ipotizzato l’esistenza di un preciso disegno che punta all’eliminazione delle banche del territorio. Non direttamente ma esasperando il rispetto di regole troppo pesanti,
Una specie di Spectre mondiale del credito. Tesi suggestiva ma su quali basi si appoggia?
L’economia globalizzata appare sempre di più dominata dalla grande finanza e dalla tecnocrazia. La concentrazione spinta del sistema bancario ha portato a meccanismi collusivi tra le diverse banche e tra le banche e i grandi gruppi industriali. Un meccanismo che è stato alla base del crack del 2007. Proprio per questo condivido la tesi di Marco Vitale, economista di valore e grande esperto di banche popolari.
E qual è la tesi di Marco Vitale?
Le banche devono diventare sempre più omogenee, burocratiche, rigide, anonime e staccate dal territorio e da simili sentimentalismi. Senza anima, identità e cultura. Per fortuna la Costituzione e un grande baluardo contro queste forzature.
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