Perché l'Italia è ancora bancocentrica

L’Italia sconta un sistema che ha impedito lo sviluppo del mercato dei capital e il salto dimensionale alle piccole imprese. Delle soluzioni per uscirne e degli ostacoli da superare ne hanno parlato a Controcorrente, la trasmissione di Le Fonti Tv, due professori di economia
[auth href=”http://www.worldexcellence.it/registrazione/” text=”Per leggere l’intero articolo devi essere un utente registrato.
Clicca qui per registrarti gratis adesso o esegui il login per continuare.”]L’Italia resta un Paese bancocentrico. Un sistema nato nel Dopoguerra che ha impedito lo sviluppo del mercato dei capitali e la possibilità, per le imprese, di trovare finanziamenti in canali alternativi rispetto a quello bancario. Lo sviluppo economico e finanziario è avvenuto in Italia in un ambiente chiuso a livello internazionale, che solo a partire dagli anni Novanta ha iniziato ad aprirsi, grazie alla spinta europea. Ma com’è oggi la situazione bancaria e finanziarie in Italia e quali sono state le ragioni che hanno condotto nel nostro Paese a uno sviluppo asfittico del mercato dei capitali? E, soprattutto, perché l’Italia, nonostante le esortazioni europee, resta ancora un Paese bancocentrico?

Ne hanno parlato a Controcorrente, la trasmissione di Le Fonti Tv, condotta dal direttore delle testate economiche Legal e WorldExcellence, Angela Maria Scullica, Alberto Banfi, professore ordinario di economia degli intermediari finanziari dell’Università Cattolica di Milano, e Alessandro Carretta, professore ordinario di economia degli intermediari finanziari dell’Università Tor Vergata di Roma.
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Specializzarsi e cercare nicchie di mercato 
Parla Alberto Banfi, professore ordinario di economia
degli intermediari finanziari dell’Università Cattolica di Milano
A che punto è il sistema bancario italiano?
A mio avviso il sistema bancario non si trova in una situazione drammatica dal momento che le difficoltà nascono non solo da colpe dirette delle banche (o meglio da un numero alquanto circoscritto di banche, anche se talune di dimensioni importanti), ma dalla crisi dell’economia reale che si è protratta troppo a lungo nel tempo. Quando una buona parte delle imprese con il business orientato al mercato domestico si sono trovate in difficoltà, ciò ha avuto una ricaduta sul sistema bancario che si è trovato a fare i conti con clientela non più in grado di rimborsare i crediti ottenuti. Ciò ha creato tensioni che sono sfociate anche in una certa sfiducia da parte della clientela non più così certa della solidità di alcune banche. Il dover ricorrere ad aumentare il proprio grado di patrimonializzazione e la propria solidità ha spinto il sistema bancario anche a ricercare una ampliamento della dimensione delle banche come pure un accorpamento tra banche più sane e banche meno sane. Le banche, insomma, sono diminuite, sono diventate più grandi con un portafoglio di crediti non ottimale e una redditività molto bassa che ha avuto effetti sulla patrimonializzazione.
La crisi di fiducia, da parte dei clienti, però, non è stata superata… 
In realtà, andando a vedere bene, si scopre che alcune banche in difficoltà hanno visto crescere la clientela, che da un lato ha sì ridotto la fiducia, dall’altro la mantiene comunque nei confronti delle banche.
Se i clienti tengono i soldi in banca significa infatti che hanno un livello adeguato di fiducia, anche perché gli strumenti a tutela del depositante sono nonostante tutti pienamente efficaci.
La continuità di fiducia è dovuta al fatto che l’Italia è un Paese bancocentrico, per cui non ci sono alternative?
Sì, perché dobbiamo anche considerare  che chi porta i soldi in banca nella stragrande maggioranza sono depositanti privati (la clientela retail) e quasi tutti residenti nel nostro Paese, mentre coloro che ottengono credito dalle banche  famiglie e imprese medio piccole che hanno poche altre alternative di finanziamento rispetto al sistema bancario, a motivo soprattutto della natura stessa delle imprese che devono essere finanziate.
Quindi sono gli imprenditori a non agevolare la formazione di un mercato dei capitali differenziato?
L’imprenditore vuole mantenere il possesso dell’azienda, che invece deve essere contendibile. Vuole avere sotto controllo l’impresa che funziona bene e quindi ricorre pressoché esclusivamente al credito  bancario e trascura l’emissione di strumenti finanziari (di capitale o di debito); ancorché esistano altri strumenti , come ed esempio il supporto di fondi chiusi e o dei fondi di private equity,il nostro tessuto di imprenditori ne fa a meno (e talvolta a ragione data la dimensione comunque contenuta di buona parte delle nostre imprese)
Quali sono gli obiettivi del sistema bancario?
Indipendentemente dalla crisi, l’elemento che potrebbe costituire uno dei driver del cambiamento delle nostre banche  è il cosiddetto “fintech”. La tecnologia ha avuto e sta avendo  impatti rilevanti  su qualunque azienda e, pertanto, non potrà che averlo (e in parte lo sta già avendo) anche sulle banche. Siamo però sicuri che la tecnologia che le banche stanno ricercando  è la migliore, la meno costosa e la più sicura? Un altro aspetto che incide sul sistema bancario è l’eccessiva presenza di sportelli, che ha effetti sia sulla numerosità del personale e sia sulle sue competenze: in altri termini una scommessa importante è come coniugare l’attuale esubero di personale bancario (con competenze un po’ datate) e la necessità di inserire risorse nuove in grado di utilizzare le nuove modalità operative (sicuramente più innovative e smart).
Più che la crisi, quindi, sulla ristrutturazione delle banche incide proprio la tecnologia?
Le banche stanno cambiando modello di business ma forse non hanno ancora compreso quale deve essere il modello del futuro. La banca deve continuare a fare credito e prestiti perché è un modello che sarà sempre valido. Inoltre, la questione è se l’istituto di credito debba continuare a fare tutto o se sia necessario cominciare a specializzarsi e cercare nicchie di mercato. È questa la sfida a cui andiamo incontro, e sarà vincente se le banche riusciranno a eliminare il fardello dei crediti deteriorati che impedisce qualunque visione a più lungo termine dovendo occuparsi soprattutto del contingente.
Ipotizzando il quadro del sistema bancario tra cinque anni, come lo vede?
L’Unione bancaria europea dovrebbe favorire il dialogo tra le banche della Ue. Le banche italiane continueranno a sopravvivere (e anche bene) ma in alcuni casi probabilmente ci sarà bisogno di un’iniezione di capitali esteri. In prospettiva immagino qualche operazione di questo tipo, ma in ogni caso le banche dovranno crescere di dimensione e diversificarsi nel business.
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È il momento di sfruttare il fintech
Parla Alessandro Carretta, professore ordinario di economia degli intermediari finanziari dell’Università Tor Vergata di Roma
Quali sono le ragioni del mancato sviluppo del mercato dei capitali?
Le banche svolgono un ruolo fondamentale nello sviluppo economico del Paese, perché riescono a conciliare le preferenze delle famiglie, delle imprese e della pubblica amministrazione e, se lavorano bene, riescono a selezionare validi progetti di investimento. Il governatore Visco, qualche anno fa, ha sottolineato che le banche giocano nel campo delle forze del bene. Quindi non è il concetto di banca in discussione, ma alcune manifestazioni deteriori che il sistema bancario ha provocato. Dal punto di vista storico, la situazione attuale ha radici lontane. Le nostre imprese hanno mantenuto  dimensioni e un livello di fragilità che non consentono loro di competere a livello internazionale. Le banche, ormai privatizzate (salvo alcuni casi particolari), sono imprese, anche se spesso viene ancora assegnata loro il ruolo di istituzioni, con prevalenti funzioni economico-sociali di sostegno del territorio e, per le banche più grandi, di indirizzo dei fondi secondo modalità coerenti con la politica economica. In quanto imprese,  devono dotarsi di  una governance adeguata e di funzioni-obiettivo connesse alla massimizzazione del valore per tutti i propri stakeholders nel medio termine. Le fragilità attuali sono figlie del passato, dobbiamo considerare anche la situazione del nostro Paese dal punto di vista economico. Le famiglie hanno tuttora una forte propensione alla liquidità, la quota di risparmio gestito sta crescendo ma si è ridotta rispetto ad altri Paesi. Se guardiamo alle imprese, sono poco più di quattro milioni e la quasi totalità ha meno di dieci dipendenti, la metà rispetto alla media europea. Il nostro sistema economico  è quindi fatto di risparmiatori orientati al breve termine e di micro o piccolissime imprese e questo ha ostacolato lo sviluppo del mercato dei capitali.
L’interesse a non sviluppare il mercato dei capitali è dovuto anche al fatto che le banche finanziavano il debito pubblico acquistando titoli di stato?
È stato un insieme di interessi convergenti, anche per lo Stato è risultato storicamente più conveniente collocare il debito pubblico presso le banche, e poi vediamo anche oggi che le famiglie si muovono con difficoltà quando vanno a investire in strumenti diversi dai depositi bancari perché non hanno un livello di educazione finanziaria sufficiente per effettuare investimenti consapevoli. È certamente, quindi, una questione culturale, in passato il sistema bancocentrico era un grande punto di forza del sistema bancario, mentre oggi sta diventando un punto di debolezza. Occorre un cambiamento, che registra però  ancora forti resistenze.
Dal 2008 c’è stata una forte spinta europea per lo sviluppo del mercato dei capitali. In Italia cosa è stato fatto?
Negli ultimi dieci anni il mondo è cambiato. In Italia, guardando agli anni più significativi della crisi, gli investimenti si sono ridotti del 30% e i consumi sono calati dell’8%. Il sistema bancario riflette le condizioni di quello economico. L’integrazione finanziaria europea si è interrotta, anche perché gli Stati si sono chiusi per reagire alla crisi e ognuno si è comportato in modo divergente. Per quanto riguarda il mercato dei capitali, il progetto di integrazione a livello europeo ha l’obiettivo di spostare il baricentro dall’intermediazione finanziaria al mercato dei capitali. Si tratta di un obiettivo virtuoso ma ambizioso, con articolati step intermedi e tempi di realizzazione lunghi. L’obiettivo condivisibile è ridurre il costo del capitale per le imprese, aumentare le fonti di finanziamento di queste ultime ma anche le opportunità di investimento delle famiglie europee. Gli strumenti che il progetto di Capital market union immagina riguardano una forte semplificazione dei prospetti informativi che le imprese devono produrre per procedere alle emissioni e  la circolazione di informazioni relative alle imprese, che oggi sono collocate in un contesto di forte opacità. Lavorando anche sul fronte della cartolarizzazione dei crediti, si dovrebbe facilitare il passaggio a sistemi orientati ai mercati.
Rispetto ad altri Paesi europei però siamo ancora indietro…
Sì, in parte per motivi legati a connotazioni strutturali della nostra economia, in parte per elementi legati da un lato a una elevata incidenza del debito pubblico sul Pil, che assorbe risorse e rende il mercato finanziario più ingombrante, dall’altro per via dei crediti deteriorati e in sofferenza. Oggi, infatti, in Italia ci sono 170 miliardi di euro di crediti deteriorati, di cui 80 di sofferenze. Il fardello dei crediti deteriorati è a mio avviso aggredibile purché venga impiegato il tempo necessario, senza panico e allarmismi,  e vengano seguite le linee guida della Banca centrale europea. In questo momento, fra l’altro, la domanda di finanziamento delle imprese è abbastanza “ferma”:  le realtà sane del paese sono autosufficienti rispetto al sistema finanziario, mentre  le imprese che chiedono finanziamenti sono fragili e problematiche.  In sostanza, ci sono ostacoli anche di natura congiunturale allo sviluppo del mercato dei capitali.
Le imprese in difficoltà dovrebbero rivolgersi ad altri operatori?
Dovrebbero essere messe in condizione di superare queste difficoltà. Se le banche concedessero a queste imprese credito in abbondanza, rischierebbero di mettere a repentaglio la sicurezza dei depositi bancari. La soluzione al problema delle imprese fragili non è nella finanza ma nella parte reale dell’economia.  In un mondo meno bancocentrico, dotato delle infrastrutture adeguate,  il ruolo delle banche non sarebbe ridimensionato, ma meglio qualificato rispetto ad oggi.
Che cosa pensa delle iniziative per favorire l’accesso in Borsa alle imprese?
Ci sono iniziative e casi eccellenti di ingresso in mercati regolamentati da parte delle imprese italiane, ma certo siamo ben lontani dagli altri paesi con i quali normalmente ci confrontiamo. Si pensi ad esempio che l’incidenza sul PIL delle operazioni che finanziano la parte iniziale dello sviluppo delle imprese  (venture capitale e private equity), è pari allo 0,003% , un valore che è un decimo rispetto ai principali Paesi europei.
Si andrà verso una uniformità a livello europeo?
Sì, se verranno ridotti gli altri differenziali. I Paesi europei che ora si confrontano sull’Unione del mercato dei capitali hanno caratteristiche giuridiche e fiscali molto diverse. Pensiamo, ad esempio,  alla tutela dei creditori ed al fronte delle procedure concorsuali e così via. Bisogna diminuire e uniformare i tempi della giustizia. Oggi, infatti, una procedura concorsuale si chiude in Italia in un tempo che va dai cinque ai quindici  anni, a seconda del Tribunale di riferimento. Più in generale, ogni differenza significativa nel funzionamento dei vari “sistemi paese”  rallenta l’efficacia del progetto di Capital Market Union.
Il fintech darà spazio a canali alternativi di finanziamento delle banche?
La tecnologia svolge un ruolo fondamentale nella distribuzione dei servizi finanziari. L’intervento del fintech nella filiera produttiva del sistema bancario potrebbe comportare una maggiore efficienza, ma è anche visto come un  concorrente rispetto alle banche. L’equilibrio sarà tra efficienza e qualità dei servizi. Un approccio robotizzato alle relazioni tra cliente e intermediario finanziario produce costi più bassi ma potrebbe avere effetti negativi sulla qualità del servizio. In prospettiva, il successo del fintech dipenderà paradossalmente proprio dalla qualità del capitale umano, che svolgerà un ruolo fondamentale di accompagnamento della tecnologia nella relazione con il cliente. L’obiettivo di  riduzione dei costi, mantenendo o addirittura migliorando la qualità del servizio,  dovrà quindi essere mediato da un intervento umano più qualificato, e dunque più costoso, rispetto a quello attuale.
Il fintech potrebbe dare spazio anche ad altri operatori non bancari?
Certamente, non solo per la parte di filiera ma anche per il cosiddetto ultimo miglio, cioè il contatto diretto con il cliente finale. Il primo esempio è l’entrata in vigore della Direttiva sui servizi di pagamento, la Psd2, volta a  favorire lo sviluppo di pari condizioni di concorrenza tra i cosiddetti prestatori storici e i nuovi prestatori di servizi di pagamento, migliorare l’efficienza, la trasparenza e ampliare la scelta degli strumenti a disposizione degli utenti, nonché garantire un livello elevato di tutela per questi ultimi.
È la prima sfida che le banche si troveranno ad affrontare, vedremo se una maggiore concorrenza può portare benefici ai consumatori.
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