Leggere l'anima del mercato

Per Ferruccio Ferragamo, a capo della maison fiorentina, è la chiave del successo di un’offerta che, per essere competitiva. deve adeguarsi continuamente alle mutevoli esigenze e stili di vita della clientela
[auth href=”http://www.worldexcellence.it/registrazione/” text=”Per leggere l’intero articolo devi essere un utente registrato.
Clicca qui per registrarti gratis adesso o esegui il login per continuare.”]Icona dell’eccellenza italiana, la maison Ferragamo si è imposta sui mercati di tutte le latitudini. Ma la manifattura rimane made in Italy, fiorentina per la precisione. Non ha ceduto alla corte dei grandi gruppi stranieri del lusso, come i colleghi Bulgari o Gucci, ma ha preferito ricorrere a capitali privati attraverso la quotazione in Borsa dove è sbarcata nel giugno 2011.

Ferruccio Ferragamo, presidente della Salvatore Ferragamo Spa e della Ferragamo Finanziaria, è alla guida di un’azienda con 4mila dipendenti e oltre 660 punti vendita nel mondo. I numeri mostrano una buona redditività,  pur in un contesto di mercato difficile. Il lusso, si sa, è sotto pressione. E «il rallentamento dell’economia cinese e le tensioni geopolitiche», ricorda la maison, «potrebbero penalizzare la crescita di tutto il settore». Anche il gruppo Ferragamo potrebbe esserne penalizzato «ma, grazie al posizionamento del brand, alla ricchezza dell’offerta dei prodotti e alla capillare presenza distributiva, si ipotizza un’ulteriore crescita del risultato economico nel corso del 2016». Nel primo semestre 2016 il gruppo ha registrato ricavi pari a 710 milioni di euro, in contrazione del 2% a tassi di cambio correnti, con un utile netto di pertinenza del gruppo in progressione del 2,3%, pari a 90 milioni di euro. L’indebitamento finanziario netto si è ridotto, passando dai 98 milioni di euro al 30 giugno 2015 a 75 milioni. Nel dettaglio dei mercati, l’area Asia-Pacifico ha subito una contrazione del 4%, con un miglioramento della Greater China e un ulteriore peggioramento di Hong Kong e Macao; l’Europa ha perso un 3% del fatturato, a 189 milioni di euro, a causa dell’impatto legato ai minori flussi turistici; il Giappone ha registrato un incremento del 2%, a 63,6 milioni, come il Nord America salito a 167,4 milioni di euro. Bene l’America Latina (+12%) che però pesa ancora poco (4,9%, in crescita rispetto al 4,7% del primo semestre 2015). Ferruccio Ferragamo (classe 1945) ha messo piede in azienda nel 1963. Quando lo incontriamo, inevitabilmente l’occhio cade sulle scarpe. «Sono comode, sa. Le scarpe devono essere anzitutto confortevoli», si affretta a commentare il figlio del calzolaio dei sogni e delle dive. Ha speso mezzo secolo nel mondo della moda e ancora non avverte momenti di assuefazione. Perché «la moda tiene vivi. Segue le continue mutazioni del mondo, consente quindi di adeguarsi al tempo che cambia, alle esigenze del consumatore, al modo di vivere. Ogni sei mesi c’è un cambiamento. In questo mondo è impossibile annoiarsi». Ferruccio è il primogenito di Salvatore (1898): uomo che sembra uscito da un libro di fiabe, autore di un’esistenza talmente straordinaria da renderla lui stesso pubblica con l’autobiografia Il calzolaio dei sogni. Undicesimo di 14 figli, a 11 anni è apprendista a Napoli presso un calzolaio, a 13 apre un suo negozio a Bonito e a 16 raggiunge in America uno dei fratelli. «Papà era partito con così pochi soldi che neppure bastavano per assicurarsi l’ingresso a New York. Eppure pagò la differenza per lasciare la terza classe e andare in seconda. Una volta in America, iniziò a lavorare col fratello in un grande calzaturificio di Boston. Figuriamoci, lui, temperamento creativo a una catena di montaggio, era affascinato dalla modernità delle macchine ma ne vedeva anche i limiti». Il suo punto di forza, continua Ferruccio Ferragamo era saper «leggere l’anima del cliente. Ne individuava subito il carattere e su quello plasmava la scarpa: sempre personalizzata». E ancora lo vede «che muove le mani mentre sperimenta un nuovo modello. Lui era così. Non disegnava niente, creava direttamente partendo da un modellino. Un instancabile creativo, sempre in attività, pieno di energia», nonché «padre presente e severissimo, intransigente. Mi portava a scuola, poi arrivava quando arrivava, potevo trascorrere ore e ore ad aspettarlo sul portone della scuola. A casa si mangiava tutti insieme. Era il momento in cui ci raccontava dei personaggi che frequentavano il negozio». Dive comprese… «Dalla Hepburn alla Magnani. Poi la bellissima presentatrice di Lascia o raddoppia, Paola Bolognani. Ho ancora la foto, avevo 16 anni, ed ero innamoratissimo di lei».
Il caso Caprotti-Esselunga  ha ricordato quanto possono essere difficili e traumatiche le gestioni familiari di un’azienda. «Il tema della successione e del ricambio generazionale è un argomento importantissimo, che va affrontato con largo anticipo sui tempi. La successione a mio avviso va infatti pianificata molto prima che il tema si ponga e occorre darsi delle regole quando in realtà il tema non è ancora un problema, così si può valutare il tutto con maggiore lucidità e si può guardare più serenamente al futuro», spiega Ferragamo. «Abbiamo ragionato sulla nostra realtà e ci siamo mossi in tre direzioni. Anzitutto noi della seconda generazione siamo entrati in azienda e ciascuno di noi si è ritagliato uno spazio in funzione delle proprie capacità e attitudini, accettando l’idea di mia madre che ciascuno di noi sarebbe stato trattato nello stesso modo, anche dal punto di vista economico. E devo dire che questo ha funzionato perché se qualcuno di noi avesse guadagnato più degli altri, avremmo passato il nostro tempo a discutere di soldi invece che di progetti per l’azienda. Come seconda mossa, abbiamo fissato in anticipo le regole sulla successione. Noi sei fratelli abbiamo 23 figli ed è stato stabilito che solo tre di loro potessero entrare in azienda e per farlo avrebbero dovuto meritarselo. E così anche per le generazioni successive. Come terza mossa, abbiamo deciso di rispettare le regole e le regole vanno fissate quando non servono. Quella sull’ingresso dei figli in azienda l’abbiamo fatta quando erano piccoli. Se aspetti finisci per creare regole ad hoc e questo non è giusto. Quindi abbiamo fatto questa scelta e l’abbiamo sviluppata nel tempo anche in funzione del progetto di quotazione della società. Quando abbiamo scelto la Borsa lo abbiamo fatto perché ci sembrava la scelta più coerente in termini di governace e quella più in sintonia con il nostro piano di crescita a livello internazionale. Abbiamo creduto molto in questo progetto e proprio perché ci credevamo lo abbiamo costruito nel corso degli anni. E devo dire che è stata una scelta di cui siamo molto soddisfatti anche perché abbiamo imparato a tener conto delle analisi degli altri, a guardare le cose da punti di vista differenti. Abbiamo capito che la famiglia è importante per tracciare un percorso, ma che per la realizzazione di questo percorso occorre il contributo di competenze diverse».
Ci vuole anche eleganza, che, dice il presidente del gruppo, «vuol dire essere se stessi. L’eleganza Ferragamo è quella che non prevarica la personalità. Un concetto nel dna dell’azienda. Si parte da mio padre che per Marilyn Monroe confezionava scarpe di un certo tipo, sicuramente con tacco importante, mentre per una donna come Audrey Hepburn pensava a una calzatura totalmente diversa, con tacco basso anzitutto. Non ha mai imposto il suo gusto, ha sempre seguito la personalità del cliente. L’eleganza è semplicemente essere se stessi, implica quindi essere anche comodi. Io sono la cavia del marchio…vengono sempre da me per testare le scarpe. Do l’ok solo quando sono comode, oltre che belle naturalmente».
Ferragamo è poi sinonimo di Toscana: regione fra le più amate dagli stranieri, pronti a investire. «Lo leggo come un complimento al nostro paese. Conta, però, non fare l’inverso, ovvero che gli italiani vadano a produrre all’estero». E aggiunge: «L’Italia può contare su un patrimonio manifatturiero importantissimo, abbiamo una tradizione artigianale di grandissima qualità riconosciuta in tutto il mondo, tant’è che tutti i più grandi gruppi del lusso realizzano le lavorazioni di punta nel nostro paese. Credo che se l’Italia riuscirà a lavorare di più sulla competitività, a diminuire la burocrazia, a impegnarsi su leggi chiare e a dare maggior spazio ai giovani e a valorizzare le loro capacità e competenze potrà continuare a mantenere il proprio primato anche in futuro. Non c’è differenza tra l’azienda che deve competere nel mercato e l’Italia che deve competere nel mondo. Se fanno bene entrambe, l’Italia potrà conoscere un nuovo boom. E magari molti dei tanti giovani che scelgono di lasciare il paese e di andare a lavorare all’estero, potrebbero mettere a frutto le loro capacità qui». E comunque, investire in Italia è spesso un’avventura. «Ed è una nota dolente», puntualizza Ferragamo. «Dovremmo mettere gli stranieri nelle condizioni di poter investire», senza cambiare continuamente le leggi e le regole del gioco.
In tema di Piano nazionale Industria 4.0, Ferruccio Ferragamo non ha dubbi: «Mi piace molto l’idea di fabbrica intelligente che rompe le barriere fisiche e contribuisce a creare una filiera pulsante e trasversale. È un progetto di politica industriale e di autorigenerazione di una manifattura che deve riqualificare la sua produttività. Una nuova idea di filiera fra la digitalizzazione dei processi e nuovi bisogni del cliente finale. Non sarà una cosa facile, ma dobbiamo guardare al futuro, puntare su una crescita di qualità ed è giusto che il governo pensi per tempo a questo, e lo pensi in funzione di quella che sarà l’evoluzione del mercato globale. Penso inoltre che sia importante che il progetto, oltre agli investimenti in infrastrutture come la banda larga, prenda in considerazione anche gli investimenti destinati all’aumento delle competenze con l’istruzione scolastica e quelli sul made in Italy».
Ferruccio Ferragamo della forza lavoro italiana ama la «creatività e tenacia. Se osservo la mia azienda, vedo che è fatta da persone fantastiche, che non mi stanco mai di apprezzare. C’è una moltitudine di persone che lavora nel silenzio, sono sicuro che ci sono difficoltà ma non si arrendono mai. Si sentono partecipi. In altri paesi, i dipendenti è come se fossero passeggeri di un treno, dove una carrozza vale l’altra: salgono e scendono senza problemi. Da noi si avverte maggiormente il senso della dedizione».
Assieme al figlio Salvatore (junior), gestisce, in autonomia rispetto al gruppo quotato, il Borro, Relais & Chateaux che è anche un’azienda vinicola. «Una volta arrivato al Borro, pensai che non avremmo mai prodotto vino. Non mi fidavo delle mie competenze. Ero approdato in quell’angolo aretino, trascinato dalla mia passione per la caccia, lo vedevo come un posto splendido, non avevo pensato per niente al vino, ma all’accoglienza. Invece mio figlio Salvatore mi spiegò che l’esposizione era interessante, e che c’erano tutti i presupposti per vinificare. Mi convinse. Tentammo il primo vino. Da quel momento mi sono appassionato, ho voluto che venisse costruita una bella cantina e si proseguisse in quella direzione».
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