Il Convegno, svoltosi a Palazzo Mezzanotte, si è focalizzato sul corporate finance con tre Tavole rotonde, a cui hanno partecipato illustri esponenti del mondo finanziario, legale, accademico, imprenditoriale, tra cui Alan Friedman, che hanno parlato di Cfo, pianificazione finanziaria, fintech e trasformazione digitale.
[auth href=”http://www.worldexcellence.it/registrazione/” text=”Per leggere l’intero articolo devi essere un utente registrato.
Clicca qui per registrarti gratis adesso o esegui il login per continuare.”]Il Financial Forum dal titolo “Defining the future of the Cfo” si è aperto con l’intervento di Alan Friedman che ha parlato del prossimo d-day finanziario ed economico italiano, dopo l’incertezza causata dalle elezioni politiche del 4 marzo. Friedman ha poi discusso della questione delle banche e dei futuri investimenti necessari. La prima Tavola rotonda dal titolo “Il Cfo nell’era dell’Industria 4.0: orientare gli investimenti in chiave strategica”, moderata da Alessia Liparoti di Le Fonti, ha visto la partecipazione di Roberto Mannozzi, Presidente ANDAF, Flavio Caruso Cfo di Sandoz, Maria Rosaria Leccese di Studio di Consulenza Tributaria e Societaria Leccese, Vito Rotondi Ceo e Managing Director di MEP e Gino Falvo, Direttore Amministrativo di Lepida. Il confronto ha messo in luce quanto oggi il Cfo sia sempre più manager dei dati e delle informazioni che arrivano all’interno dell’azienda, per questo ci sarà sempre più bisogno di dotarsi di figure come i data scientist, in grado di trattare le informazioni.
Nel corso della seconda Tavola “Pianificazione finanziaria e gestione del rischio come fattori competitivi per l’azienda”, moderata da Alberto Tron dell’Università di Pisa, sono intervenuti Paolo Zerbini, Key Account Director di Board Italia, Roberto Spaccini Partner di 4 Planning, Francesco Esposito CFO di Koelliker, Alessandro Malagrinò Treasury Manager di Luxottica e Consigliere AITI e Giuseppe Motta, Director of Planning and Management Control di KOS che hanno discusso della pianificazione strategica finanziaria, con le aziende che oggi devono curare con sempre maggiore attenzione le loro fonti di finanziamento.
La terza Tavola rotonda intitolata “Fintech e digital transformation: quali le sfide per il futuro?” e moderata da Alessia Liparoti di Le Fonti, si è focalizzata sulla tematica del fintech e in particolare della possibilità di utilizzare all’interno dell’azienda le potenzialità offerte dalla tecnologia blockchain, alla base delle criptovalute. Al dibattito hanno partecipato Giuseppe Di Marco, Country Manager Italia di Soldo, Valentina Ubaldi, Product Manager ZTravel e ZCarFleet Zucchetti, Thomas Bertani Ceo di Eidoo e Antonella Vona, Direttore Marketing & Comunicazione di Coface Italia.
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L’Italian sounding non esiste
5 mesi agoI prodotti italiani e le loro presunte contraffazioni si rivolgono a consumatori diversi. “Per aumentare le quote di mercato dei prodotti italiani serve un’azione marketing più incisiva”.
- Italian sounding non è un sinonimo di contraffazione
- Prodotti italiani e prodotti Italian sounding si rivolgono a consumatori diversi
- La tutela del prodotto attraverso DOP o DOCG non è sufficiente
L’espressione Italian sounding è diventata, nel gerco comune, un sinonimo di contraffazione dei prodotti agroalimentari italiani. Tuttavia, l’esperienza di ExportUSA suggerisce che il famigerato Italian sounding sia poco più di un mito: l’Italian sounding non fa concorrenza sleale ai prodotti di origine italiana, ma, in realtà, negli Stati Uniti, si rivolge a un consumatore diverso.
Secondo i dati di ExportUSA, negli Stati Uniti il costo di mezza libbra (l’unità di prodotto più acquistata equivalente a 227 grammi) di Parmigiano Reggiano è di 12.50 dollari. La stessa quantità di Parmesan costa 5.90 dollari. Il fatto che i due formaggi, per quanto simili, costino in modo così differente al consumatore li mette in due segmenti di mercato distinti. Per cui, anche nel momento in cui l’Amministrazione americana dovesse inasprire i dazi sul Grana e Parmigiano, le vendite non dovrebbero risentirne.
“I prodotti Italian sounding venduti sul mercato americano” dice Lucio Miranda, presidente di ExportUSA “non rubano nulla alle vendite delle specialità alimentari italiane importate dal nostro Paese. Chi compra il Cambozola o il Parmesanito lo fa perché è convinto di voler comprare Cambozola o Parmesanito.”
Infatti, nell’esperienza di ExportUSA, contrariamente al luogo comune, il consumatore americano è molto attento a quello che compra, leggendo sempre l’etichetta. Sui prodotti italiani, è scritto product of Italy (prodotto italiano) eliminando, così, qualsiasi possibilità di equivoco.
“Il mercato delle specialità alimentari italiane in America è appannaggio di consumatori che conoscono il prodotto. Chi compra il Parmigiano Reggiano lo conosce o sa che il Parmesanito viene dall’Argentina o da altri Paesi” commenta Miranda.
Tuttavia, non è sufficiente che i prodotti italiani difendano le proprie quote di mercato negli Stati Uniti. Per espanderle, secondo Lucio Miranda, non bisogna puntare solo sulla tutela del prodotto in termini di DOCG o DOP, ma bisogna fare un passo ulteriore ed essere più creativi.
“Se si vuole ridurre la quota di mercato di prodotti Italian sounding a favore dei prodotti italiani” conclude Miranda “servono operazioni di marketing più mirate, in quanto la strada della tutela governativa dei prodotti italiani non ha, ad oggi, prodotto risultati tangibili”.
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Il fattore timore nei mercati globali. L’analisi di Kenneth Rogoff, Professore di Economia all’Università di Harvard
5 anni agoCAMBRIDGE – La fenomenale volatilità del mercato dello scorso anno deve molto ai rischi reali e alle incertezze su fattori come la crescita cinese, le banche europee e l’eccesso di petrolio. Per i primi due mesi di quest’anno, molti investitori temevano che anche gli Stati Uniti, la storia di crescita più incoraggiante del mondo, stavano per cadere in recessione. Infatti, tra gli esperti che partecipano al sondaggio mensile del Wall Street Journal, il 21% ritiene che una recessione è dietro l’angolo.
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Clicca qui per registrarti gratis adesso o esegui il login per continuare.”]Non nego che ci sono dei rischi. Una crescita abbastanza grande della Cina o del sistema finanziario europeo potrebbe certamente far pendere l’economia globale dalla crescita lenta alla recessione. Un pensiero ancora più spaventoso è che il prossimo anno nello stesso periodo, la presidenza degli Stati Uniti potrebbe trasformarsi in un reality show televisivo.Tuttavia, da un punto di vista macroeconomico, i fondamentali non sono così male. I dati sull’ occupazione sono stati positivi, la fiducia dei consumatori è solida e il settore petrolifero non è abbastanza grande rispetto al Pil perché il crollo dei prezzi porti l’economia degli Stati Uniti in ginocchio. Infatti, il driver della fiducia dei mercati più sottovalutato in questo momento è la paura di un’altra crisi enorme.
Ci sono alcune analogie tra il disagio di oggi e la fiducia del mercato nel decennio successivo alla seconda guerra mondiale. In entrambi i casi, vi era una domanda smisurata per le attività sicure. (Naturalmente, la repressione finanziaria ha svolto un ruolo importante dopo la guerra, con i governi che hanno manipolato il debito degli investitori privati a tassi di interesse al di sotto del mercato).
Anche un intero decennio dopo la seconda guerra mondiale, quando il famoso economista John Kenneth Galbraith ha rilevato che il mondo potrebbe sperimentare un’altra depressione, i mercati sono andati nel pallone. La gente ancora ricorda come il mercato azionario degli Stati Uniti sia sceso del 90% durante i primi anni della Grande Depressione. Già nel 1950, non era difficile immaginare che le cose potevano andare male di nuovo. Dopo tutto, il mondo aveva appena attraversato una serie di catastrofi, tra cui le due guerre mondiali, un’epidemia globale e naturalmente la depressione stessa. Sessanta anni fa, lo spettro della guerra atomica sembrava anche fin troppo reale.
La gente oggi non ha bisogno di ricordare di quanto e quanto velocemente i mercati azionari possono scendere. Dopo la crisi finanziaria del 2008, i listini statunitensi sono scesi di oltre il 50%. I mercati azionari in altri paesi hanno subito un calo significativo: quelli dell’Islanda, per esempio, sono crollati di oltre il 90%. Non c’è da stupirsi che una volta che il recente calo del mercato ha raggiunto il 20%, molte persone si sono chieste quanto potesse andare peggio – e se i timori di una nuova recessione potessero diventare una profezia autoavverante.
L’idea è che gli investitori diventano così preoccupati per una recessione e che i listini scendano così tanto, che questa poca fiducia si riflette nell’economia reale attraverso i tagli alla spesa, dando origine al temuto calo. Potrebbero avere ragione, anche se i mercati sopravvalutano la propria influenza sull’economia reale.
D’altra parte, il fatto che gli Stati Uniti sono riusciti ad andare avanti nonostante le turbolenze globali suggerisce che la domanda interna è robusta. Ma questo non sembra impressionare i mercati. Anche quegli investitori che restano cautamente ottimisti circa l’economia degli Stati Uniti si preoccupano che la Federal Reserve consideri la crescita come un motivo per continuare ad alzare i tassi di interesse, creando enormi problemi per le economie emergenti.
Ci sono altre spiegazioni in merito alla volatilità, oltre alla paura, naturalmente. La più semplice è che le cose vanno davvero così male. Forse i singoli rischi non hanno la stessa portata di quelli del 1950, ma ce ne sono di più e i mercati si muovono da una posizione molto più inflazionata.
Inoltre, la globalizzazione finanziaria ha profondamente peggiorato le correlazioni, amplificando la trasmissione di shock. C’è un’enorme fragilità e debolezza nei mercati del debito mondiale, con un corrente allentamento monetario che maschera problemi profondamente radicati sotto la superficie. Alcuni hanno indicato una mancanza di liquidità nei principali mercati come fattore guida delle enormi oscillazioni dei prezzi; in un piccolo mercato, una piccola variazione della domanda o dell’offerta a volte può richiedere un grande cambiamento dei prezzi per ristabilire l’equilibrio.
La spiegazione più convincente, però, è ancora che i mercati hanno paura che quando emergono i rischi esterni, i politici e i policymaker saranno inefficaci a confronto. Di tutte le debolezze messe in luce dalla crisi finanziaria, la paralisi politica è stata la più profonda.
Alcuni dicono che i governi non hanno fatto abbastanza per alimentare la domanda. Anche se ciò è vero, non dipende solo da questo. Il problema più grande che grava sul mondo di oggi è il misero fallimento della maggior parte dei paesi ad attuare le riforme strutturali. Con la crescita della produttività, temporaneamente bloccata, e la popolazione mondiale in declino a lungo termine, il lato dell’offerta, non la mancanza di domanda, è il vero vincolo nelle economie avanzate.
Nel lungo periodo, è l’offerta che determina la crescita di un paese. E se i paesi non riescono a gestire le riforme strutturali profonde dopo una crisi, è difficile vedere cosa accadrà. Gestire un governo come se fosse un reality show, con un occhio sempre sulle valutazioni, non è il modo migliore di agire.
@Project Syndicate
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I dubbi di un mondo in affanno
4 anni agoL’autunno si apre con una serie di pesanti interrogativi che non trovano facili risposte. La situazione in Medioriente e la stretta interconnessione delle economie lasciano aperti molti fronti
L’autunno si apre su uno scenario in cui i dubbi in molti campi, dalla politica all’economia, prevalgono sulle certezze.[auth href=”http://www.worldexcellence.it/registrazione/” text=”Per leggere l’intero articolo devi essere un utente registrato.
Clicca qui per registrarti gratis adesso o esegui il login per continuare.”]Per esempio, quanto durerà ancora la crisi siriana e a che prezzo per la popolazione? E ancora, che cosa deve aspettarsi la Turchia di Erdogan dopo la soppressione della libertà di stampa, le epurazioni, gli arresti e migliaia di incarcerazioni? Che farà l’europa dopo Brexit e la Germania dopo l’affermazione dell’ultradestra in Meclemburgo? E c’è almeno una possibilità che quest’anno il nostro Pil riesca a guadagnare qualche punto percentuale e che si arrivi al referendum senza risse tra i partiti? Rispondere è difficile, bastano le domande per sottolineare la complessità dei problemi in essere e le poche probabilità che ci sono per risolverli.Nel mondo economico uno degli ultimi rebus riguarda l’oro, cresciuto del 28% dal 1° gennaio e improvvisamente calato dell’1,7% nella prima settimana di agosto mentre la sua ascesa sembrava inarrestabile. Da che cosa è stato originato il deprezzamento? A chi ne ha cercato le cause, si offrono almeno due spiegazioni. La prima è che in quei giorni gli Stati Uniti hanno annunciato, spiazzando gli analisti, che l’occupazione aveva ripreso a crescere, tanto che a luglio si erano creati 255 mila nuovi posti di lavoro. Così, mentre Wall Street stabiliva un record, l’oro cedeva in conseguenza del timore che la Fed, la Federal Riserve americana, visti i risultati economici e occupazionali, accelerasse il rialzo dei tassi, rafforzando il dollaro e rendendo altri investimenti più competitivi dell’oro. La seconda spiegazione è invece legata al fatto che Cina e India hanno ridotto (e ridurranno ancora) gli acquisti di oro, del quale sono i maggiori compratori. La sola Cina, in 12 mesi, ha speso il 24,1% in meno e nel secondo trimestre 2016 addirittura un -36% rispetto al trimestre precedente.Ora il rischio di altri deprezzamenti sembra scongiurato. Soprattutto perché il World gold council (Wgc) si è impegnato molto a sostegno dell’oro, promuovendolo come forma di garanzia in caso di investimenti rischiosi. L’oro, sostiene il Wgc, agisce come una specie di assicurazione, serve a controbilanciare gli investimenti a rischio e costituisce una sicurezza grazie a un prezzo sostanzialmente stabile, se non in crescita. Un’altra mossa positiva del Wgc è stata poi quella di fare incetta di oro anche se in modo indiretto: in sette mesi infatti gli Exchange trade funds, fondi specializzati in investimenti sul metallo prezioso, e lo Sprd gold trust fund, legato al Wgc hanno immesso nelle proprie riserve circa 630 tonnellate di lingotti.Preoccupa anche il mercato dei bond. Obbligazioni e titoli pubblici costituiscono una grande fonte di ricchezza, tuttavia 11 mila miliardi di dollari di titoli (una somma con 12 zeri, a seguire le prime due cifre) offrono oggi un rendimento negativo. Nonostante questo un buon numero di grandi investitori globali continua ad acquistare bond puntando su un ulteriore ribasso dei tassi: in pratica, se i tassi scenderanno ancora, come credono costoro, vendendo i bond realizzeranno un profitto. Perché in conto capitale il valore è inversamente proporzionale al rendimento dei bond,e se i tassi diventeranno più negativi i bond varranno di più. Una speculazione ad alto rischio e che può riservare brutte sorprese: se al contrario di quanto hanno previsto i tassi dovessero crescere invece di scendere, il conto capitale degli investitori potrebbe subire grosse perdite.Sul tavolo della finanza c’è anche la questione dei derivati. Una ricerca di Mediobanca ha rilevato che a fine 2015 il valore a prezzo di mercato dei derivati presenti nelle maggiori banche europee era di 4.300 miliardi e superava di tre volte e mezzo il patrimonio degli istituti. Deutsche Bank, Bnp Paribas e Barclays sono in testa alla classifica delle banche più esposte per un valore di 450-500 miliardi ciascuna, mentre in Italia sia Unicredit sia Intesa hanno una esposizione di circa 75 miliardi. Ma le regole di Basilea 3 hanno introdotto un nuovo limite al leverage ratio, stabilendo che il rapporto tra capitale e attivi non potrà essere inferiore al 3% e, anche se questa norma non entrerà in vigore prima del 2018, è ormai chiaro che i nuovi requisiti regolatori intendono porre dei limiti alle attività finanziarie dei grandi gruppi bancari come a quelle degli istituti di medie o piccole dimensioni.Così nei paesi europei i portafogli dei derivati si sono contratti nel corso del 2015, con un –30% rispetto al 2014. Credit Suisse, per esempio, ha ridotto del 57% il valore dei derivati che deteneva e Ubs ha fatto lo stesso per un valore del 34%. I regolatori svizzeri, degli Stati Uniti e del Regno Unito hanno tra l’altro deciso di adottare misure ancora più pesanti rispetto a quelle previste da Basilea 3 per scongiurare i rischi di credito e di mercato che, solo quattro anni fa, hanno provocato perdite di 12 miliardi per la banca americana JP Morgan.Nel 2016 è però la Deutsche Bank, una delle maggiori banche tedesche, a preoccupare gli osservatori internazionali per il suo portafogli di derivati, come ha ammesso il Fondo monetario internazionale (Fmi) sostenendo addirittura che «Deutsche Bank sembra essere la banca che contribuisce di più al rischio sistemico», anche in considerazione della sua attività e dei suoi interessi internazionali. Così, a fine luglio, Matteo Renzi ha potuto commentare: «La vera questione sulla finanza europea non sono i non performing loans italiani ma i derivati di altre banche».Un’opinione che non sembra condivisa da Giuseppe Vita, presidente di Unicredit, che ha sostenuto: «Abbiamo davanti una serie di dossier da risolvere. La matrice comune è la quantità di crediti in sofferenza delle banche italiane, che credo sia meglio risolvere con l’intervento dello stato». Vita ha poi spiegato che, secondo lui, il crollo delle quotazioni bancarie in Borsa: «Non è legato al fatto che le banche generano meno utili: ma al fatto che molti investitori internazionali puntano su altri settori più remunerativi. Qui il ruolo dei regolatori è fondamentale: non si capisce a cosa serve l’enorme liquidità che la Bce cerca di far giungere ai cittadini, se poi regole sempre più stringenti rendono nei fatti più difficile il sostegno delle banche all’economia». Sarà quindi compito del nuovo amministratore delegato di Unicredit, il francese Jean Pierre Mustier, spiegare al proprio presidente come dovrebbe funzionare il meccanismo di finanziamento all’economia reale da parte degli istituti di credito.Riguardo al lavoro le preroccupazioni in Italia continuano restare elevate. In agosto l’Istat, con il rilevamento riferito al secondo trimestre 2016 ha denunciato la crescita zero del Pil ed il calo di fiducia delle imprese e dei consumatori. Dal canto suo l’Eurostat avverte che nei primi tre mesi del 2016 l’Italia ha toccato il 37% di disoccupati scoraggiati (+53.000), cioè coloro che il lavoro non lo cercano neanche più e che nelle statistiche vengono definiti “inattivi”, un dato percentuale che è il doppio della media europea. Così per ridurre il tasso di disoccupazione, che secondo l’Istat è dell’11,6%, e sostituire il bonus assunzioni che decade, il ministro del Lavoro e dello sviluppo Giuliano Poletti, propone il taglio strutturale permanente del costo del lavoro.Nelle rilevazioni dell’Ocse l’Italia occupa il quarto posto, in una classifica che prende in esame 34 paesi quanto a peso delle tasse e contributi sui lavoratori dipendenti che da noi è pari al 49%, con una crescita percentuale dello 0,76 nel 2015 rispetto alla media Ocse che è del 35,9%.Al responsabile dell’Economia Pietro Carlo Padoan detto Pier Carlo tocca far luce sullo stato dell’arte così, dopo aver assicurato che rispetto al Pil il deficit continuerà a scendere, sostiene: «Non penso ci sia una stagnazione secolare, ma credo ci siano i sintomi di un malessere profondo: tutto questo però non deve essere causa di rinuncia e di pessimismo». Il ministro, che un tempo criticava da sinistra le teorie keynesiane, ora respinge anche quelle sulla stagnazione nate con la scuola austriaca degli Anni Trenta e riprese recentemente dall’americano Larry Summers, però a Bratislava, al vertice europeo di metà settembre ha proposto un fondo comune da 50 miliardi per aiutare a superare crisi economica e aumento della disoccupazione. Il progetto,chiamato “Fondo europeo per l’indennità di disoccupazione”, prevede che gli stati membri versino lo 0,5 del Pil creando così una risorsa per i paesi in cui l’occupazione cali di più di un punto percentuale rispetto alla media europea.Sono anche troppi i paesi che devono affrontare la crisi del lavoro e in cui aumenta il divario tra ricchi e poveri come al G20 di Pechino, a settembre, ha rilevato Christine Lagarde, direttore del Fmi, parlando di un ristagno dell’economia mondiale che provoca disuguaglianze sociali sempre più evidenti e un impoverimento del ceto medio in tutti i paesi occidentali, dove «Il pendolo politico oscilla in direzione contraria ai mercati aperti».Al vertice cinese si è parlato apertamente di stagnazione, al contrario di quanto sostiene il ministro Padoan, anzi, la mancata ripresa economica è stato il tema centrale, in cui il Fondo monetario internazionale ha abbassato le stime della crescita mondiale dal 3,6% al 2,9% e ha avanzato l’ipotesi di un “rischio di stallo” rilevando come siano in recessione anche Brasile, Nigeria, Russia, Sudafrica, quelle che un tempo venivano indicate come le locomotive economiche.Anche dall’Ocse sono venuti segnali negativi e a Pechino il responsabile dell’organizzazione, Angel Gurria, ha spiegato che anche la politica monetaria, unico strumento fin qui utilizzato per fronteggiare la congiuntura, non può tirate avanti così: «Le banche centrali, per stimolare l’economia, sono vicine al limite delle loro possibilità», ha detto Gurria. Gli estemporanei tentativi di questi ultimi otto anni, dallo stimolo dei tassi zero alla creazione massiccia di liquidità, agli enormi acquisti di bond agli aiuti miliardari alle banche sono dunque serviti a poco o nulla. L’economia occidentale non riesce proprio a riprendersi, tanto che per l’anno in corso le stime del Pil sono state riviste al ribasso in tutta la zona euro.Dal suo canto la Cina, dov’è probabilmente è finita la corsa del Pil nonostante una crescita stimata del 6,6% nel 2016, ha chiesto che nel documento finale, a conclusione del G20, sia inserito il tema della sovra-capacità nel settore dell’acciaio dove la metà della produzione mondiale è cinese ma trova sbocchi sempre più ridotti sui mercati stranieri, in cui sta crescendo il protezionismo. La repubblica popolare, inoltre, è intimorita dall’indebolimento della sterlina (il Regno Unito è il più importante cliente europeo per l’export cinese), e segue con apprensione la campagna presidenziale americana perché Donald Trump, candidato del partito repubblicano, propone di applicare un dazio del 45% sui prodotti che vengono dalla Cina che comunque continua ad espandere in Occidente i propri interessi, soprattutto commerciali, puntando su una varietà di settori tra cui lo sport,come dimostrano le recenti acquisizioni di proprietà dell’Inter e del Milan, le due squadre di calcio milanesi.Il discorso però cambia quando si fa riferimento agli investimenti stranieri in Cina. La Camera di commercio dell’Ue a Pechino, che rappresenta tutte le aziende europee presenti sul mercato cinese, proprio in settembre ha denunciato il continuo protezionismo del governo cinese nel confronto delle aziende nazionali. Il premier Li Keqiang infatti ha dato il via a una serie di provvedimenti restrittivi nei confronti delle multinazionali straniere, accusate di frode, truffa, di avere assunto una posizione dominante sul mercato cinese o addirittura, con i loro terzisti, di violare i diritti dei lavoratori. Un cambiamento radicale rispetto ai tempi in cui gli investitori trovavano in Cina bassi costi, infrastrutture avanzate, mercato in crescita e ampi margini di guadagno.[/auth]
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