Non è una storia di fuga di cervelli, ma di imprenditoria
C’è bisogno di esempi virtuosi e di storie che dimostrino che l’Italia è ancora un paese in cui giovani imprenditori riescono a costruire un business, farlo crescere, renderlo così grande da dover poi fare il passo successivo: lanciarlo nel mercato internazionale.
Mattia Sistigu, 34 anni, originario delle Marche, sta scrivendo questa storia, quella di un giovane che con lo studio, duro lavoro e un’idea imprenditoriale sviluppata in modo strategico e sartoriale negli ultimi 7 anni, ha dato lavoro a più di 30 personee fondato tre uffici, uno a Londra, uno in Italia e uno a New York, riscrivendo nuovamente le regole degli e-commerce.
Ad oggi, insieme al suo team, è in attesa di effettuare l’IPO presso il NYSE.
Dal liceo di Pesaro alla vittoria del Premio “Imprenditore dell’Anno 2019”
Dopo il diploma scientifico ottenuto a Pesaro, Mattia Sistigu continua i suoi studi presso la Facoltà di Economia e Commercio di Ancona con indirizzo Marketing & Sales Management iniziando allo stesso tempo, nel 2007, a lavorare come Marketing & Export Manager per un’azienda locale.
Nonostante gli studi universitari ancora in corsa, il lavoro e le responsabilità, Mattia Sistigu, decide di abbracciare la via del libero professionismo e nel 2008 intraprende una carriera come consulente marketing e web marketing per diverse realtà italiane.
Non si ferma qui, Mattia, perché il suo progetto imprenditoriale inizia a prendere forma.
Nel 2012, infatti, comincia a prendere forma, Xtribe, un’applicazione gratuita che geolocalizza prodotti e servizi di privati e aziende. Gli utenti, aprendo l’app, trovano ciò che più gli interessa intorno a loro e se interessati, possono chattare direttamente con il venditore e fissare un appuntamento per concludere l’affare più velocemente. Il venditore deve solo caricare la foto e il prezzo della merce e attendere di essere ricontattato da un acquirente.
Un percorso lungo 7 anni che ad oggi ha portato oltre 700mila download dell’applicazione e che nel marzo 2019, ha visto Mattia Sistigu vincere il Premio Le Fonti come “Imprenditore dell’Anno 2019” nella categoria “App & Ecommerce”.
“Per aver ideato e co-fondato una delle startup italiane più disruptive sul mercato internazionale delle applicazioni di e-commerce. Per la leadership e la competenza dimostrata nell’ideare e lanciare una realtà che si è imposta a livello internazionale come rivoluzionaria nel modo di intendere il commercio elettronico. Per aver contribuito a disegnare il concetto di social commerce e la capacità di veicolarlo a clienti, investitori e media. Per le indubbie doti visionarie e imprenditoriali, che, nonostante la giovanissima età, stanno portando Xtribe alla quotazione al NYSE di New York.” è la motivazione data dal comitato scientifico del Premio Le Fonti che ha decretato Sistigu come vincitore.
Un business internazionale dal cuore marchigiano
Mattia Sistigu e il suo team under 35 formato da 18 talenti, tutti con un contratto a tempo indeterminato, raccolti gli ultimi successi, continuano a lavorare per portare la loro idea oltre i confini europei.
Dopo la creazione di una sede a Londra, il futuro di Xtribe punta sia al consolidamento nel mercato italiano, sia agli Stati Uniti, un mercato florido per la tipologia di business che Mattia Sistigu sta costruendo.
Tuttavia, nonostante la direzione sia quella della diffusione in tutto il mondo dell’app, il cuore di questa storia di imprenditoria rimane marchigiano: è proprio a Pesaro la sede operativa di Xtribe, dove l’app ha preso vita e si è sviluppata nel tempo.
Nel futuro, oltre a diffondere le funzioni di Xtribe anche negli Stati Uniti, l’obiettivo è far crescere il team di talenti che lavorano a questo progetto, cooperare insieme allo sviluppo del business e rimanerefocalizzati sui nuovi obiettivi da raggiungere.
“È la costanza” afferma Mattia Sistigu “la dote che porta agli imprenditori i risultati di un duro lavoro quotidiano: la costanza nel continuare a credere in un progetto, anche quando sono in pochi a crederci, la costanza nel motivare un team, anche quando si è in pochi e il lavoro da fare è immenso e la costanza di non abbassare mai la guardia, soprattutto quando arrivano i primi riconoscimenti.”
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La ripresa passa dall’organizzazione e dalle persone
6 anni agoNiccolò Branca, a capo delle distillerie Branca, è ottimista. Le occasioni non mancano e per coglierle basta razionalizzare la gestione e investire sulle risorse umane
L’ottimismo è un tratto caratteristico di chi fa impresa e ogni giorno deve confrontarsi con il mercato.[auth href=”http://www.worldexcellence.it/registrazione/” text=”Per leggere l’intero articolo devi essere un utente registrato.
Clicca qui per registrarti gratis adesso o esegui il login per continuare.”]Nel caso di Niccolò Branca, amministratore delegato e presidente della holding del gruppo Branca International, non si tratta di una posizione generica, ma frutto di un ragionamento sulle qualità del Paese, delle persone e delle imprese che punta a riconoscere le eccellenze, individuando i nodi da sciogliere.Alla luce della sua lunga esperienza, che idea si è fatto della situazione che sta vivendo il Paese? A suo avviso ci sono le condizioni per tornare a crescere in maniera sostenuta? Sono sempre stato convinto, sin dalle sue prime manifestazioni, che questo lungo difficile periodo ha caratteristiche molto diverse dalle crisi che si sono verificate in passato. La situazione che stiamo vivendo chiede a tutti noi una risposta di lungo respiro. È un’occasione imperdibile di rinnovamento profondo che, come tutti i cambiamenti, può portare delle splendide occasioni. Il che, però, richiede un cambiamento radicale, totale, vero.Concretamente da dove partire? A mio avviso la strada principale passa per una riscoperta dell’autentico rispetto delle persone, intese sempre come fini e non come mezzi. Il rispetto dovuto all’ambiente, che ci accoglie, e ai suoi innumerevoli doni a cui attingiamo per la preparazione dei nostri prodotti. La costante attenzione e l’elevata qualità che contraddistinguono tutte le diverse fasi in grado di apportare valore all’intero processo della filiera produttiva. I molti investimenti in ricerca, innovazione e formazione…Non teme di sfociare nell’utopia?Non vedo altra strada. È stata la fedeltà a questi valori e l’applicazione di questi principi che ha permesso, a noi di Branca, di superare la crisi. 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Sicuramente possiamo crescere a livello organico puntando sempre sull’eccellenza dei nostri prodotti, in cui crediamo e riponiamo grande fiducia, e sulla loro possibilità di sviluppo. Possiamo anche crescere a livello internazionale, mirando all’acquisizione di aziende e di nuovi marchi e aprendoci a ulteriori mercati, ma soprattutto sviluppando alcuni di quelli esistenti. Il denominatore comune di ogni nostra azione è e resterà comunque un’estrema attenzione all’elevata qualità dei prodotti, garantita dai continui investimenti in ricerca, innovazione ed efficienza della struttura organizzativa. I consumatori, in Italia e all’estero, sono sempre più attenti e preparati, perciò in grado di distinguere e apprezzare la qualità. Da sempre, in Branca consideriamo i consumatori, con la loro peculiare sensibilità, come ‘coimprenditori’: coloro che ci aiutano a fare impresa.[/auth]Post Views: 314 -
La Brexit e i conti con la sterlina
6 anni agoIl calo della sterlina renderà le esportazioni britanniche più competitive. E convoglierà la spesa dei consumatori verso i beni nazionali. Ma la spinta positiva sull’economia potrebbe avere corto respiro. Perchè le condizioni favorevoli del passato?
[auth href=”http://www.worldexcellence.it/registrazione/” text=”Per leggere l’intero articolo devi essere un utente registrato.
Clicca qui per registrarti gratis adesso o esegui il login per continuare.”]I primi effetti della Brexit sono sotto gli occhi di tutti e al contrario di quello che affermano alcuni, non sono positivi. A luglio, dopo il referendum, la fiducia dei consumatori è crollata ai livelli più bassi dal 1990. I dati sul settore manifatturiero e delle costruzioni sono scesi vertiginosamente. Anche se i dati di agosto sono andati meglio, è troppo presto dire se il miglioramento era solo un “rimbalzo del gatto morto”.In questo mondo confusionario post-referendum, l’unica buona notizia è il calo della sterlina sul mercato Forex. Un tasso di cambio più basso renderà le esportazioni britanniche più competitive. Di fronte a prezzi di importazione più alti, i consumatori sposteranno la loro spesa verso i beni nazionali. Anche questo spingerà l’economia britannica.La questione è quanto è grande la spinta. Gli scettici avvertono che la Gran Bretagna fa grande affidamento sulle esportazioni di servizi finanziari, che non sono particolarmente sensibili ai prezzi, e che lo scopo della crescita di esportazioni di merci è limitata dal rallentamento della domanda globale.La Gran Bretagna ci era già passata, quindi la questione è come la storia può fare chiarezza su tutto ciò. Nel 1931, quando il Regno Unito ha abbandonato il gold standard, la sterlina ha assistito a un calo del 30%. Come oggi, il paese faceva affidamento in maniera massiccia sulle esportazioni di servizi, non solo servizi bancari ma anche spedizioni e assicurazioni. E l’ambiente esterno era anche più sfavorevole di oggi.Tuttavia, nonostante le difficoltà, il deficit del commercio di beni è sceso di un terzo tra il 1931 e il 1932. Dal 1933, la bilancia dei servizi si era rafforzata. A questo punto, l’economia era sulla strada della ripresa.Tre circostanze l’hanno reso possibile. Primo, la capacità in eccesso ha permesso alle società di accelerare la produzione. Secondo, la Gran Bretagna era in grado velocemente di mettere in atto una serie di accordi commerciali favorevoli, negoziati con i paesi del Commonwealth durante la Conferenza di Ottawa nel 1932. Terzo, l’incertezza politica è scesa improvvisamente, dal momento che il governo laburista, ampiamente incolpato per la crisi del 1931, è stato sostituito da un gabinetto conservativo con un ampio supporto popolare.Chiaramente, nessuna di queste condizioni è presente oggi. La capacità in eccesso nei settori di beni commerciati è bassa. In un contesto come quello attuale più complicato dal punto di vista legale, ci vorranno degli anni per negoziare accordi commerciali con l’Unione Europea e poi con gli altri paesi. L’incertezza politica è elevata e non ci sono prospettive di una elezione generale per risolverla nell’immediato. Gli investitori hanno tutte le ragioni per adottare un approccio attendista.Nel 1949, la Gran Bretagna si è trovata nella stessa posizione, con un deficit commerciale nei confronti degli Stati Uniti e la fiducia degli investitori indebolita. Nel settembre dello stesso anno, la sterlina è stata nuovamente svalutata, come lo era stata 18 anni prima, del 30%.Dal momento che la pressione sui salari più alti è stata contenuta, le esportazioni britanniche sono diventate più competitive. Il deficit commerciale con l’area del dollaro, che comprende Stati Uniti e altri paesi che hanno usato la sua moneta per regolare i pagamenti internazionali, ha subito una brusca contrazione. Il conto delle partite correnti è passato dal deficit nel 1949 al surplus nel 1950, e il Pil è cresciuto fortemente.Anche in questo caso, tre cose lo hanno reso possibile. In primo luogo, vi era una forte domanda negli Stati Uniti, che si stava riprendendo dalla recessione del 1948-1949. In secondo luogo, lo scoppio della guerra in Corea nel 1950 ha creato la domanda per le esportazioni di tutti i tipi. Terzo, con la creazione dell’Unione europea dei pagamenti, il Regno Unito e i suoi partner europei hanno deciso di abolire i controlli sul commercio.Anche qui, la situazione attuale non potrebbe essere più diversa. La crescita degli Stati Uniti è tutt’altro che robusta, e i paesi dell’Ue hanno messo in chiaro che non hanno alcuna fretta di negoziare un accordo commerciale con il Regno Unito.Un terzo precedente è la svalutazione della sterlina nel 1967, ancora una volta dopo un intervallo di 18 anni. La crisi della bilancia dei pagamenti del 1966-67 riflette la tendenza dei salari britannici a crescere più rapidamente della produttività, i deficit commerciali conseguenti e la riluttanza degli investitori stranieri a finanziare una posizione che vedevano come insostenibile. Questa volta, però, ci sono voluti due anni affinché i conti con l’estero migliorassero. Con una disoccupazione già bassa, è stato necessario molto tempo per riallocare le risorse da settori di beni non scambiati a settori di beni scambiati.Nel frattempo, gli investitori stranieri si sono mostrati riluttanti a finanziare il deficit della Gran Bretagna. Vedendo la difficoltà della regolazione, erano preoccupati che la sterlina sarebbe crollata. Il Regno Unito, impossibilitato ad attrarre flussi di capitale a breve termine, è stato costretto a chiedere un prestito al Fondo monetario internazionale.La storia suggerisce che i tassi di cambio hanno importanza per la competitività e che la svalutazione della sterlina dovrebbe aiutare migliorando la competitività delle esportazioni britanniche. Ma i policymaker non devono aspettarsi troppo. L’ambiente esterno è sfavorevole. Ci vorrà del tempo per riallocare le risorse verso la produzione di beni scambiati. E una nuova serie di offerte commerciali non sarà conclusa durante la notte.Nel frattempo, i leader britannici devono risolvere la persistente incertezza politica e la politica. Devono utilizzare non solo la politica monetaria, ma anche strumenti fiscali, per sostenere la spesa e rafforzare l’incentivo a investire. Fino ad ora, hanno mostrato poca consapevolezza di tale urgenza.[/auth]Post Views: 304 -
Innovazione e ricerca per una marcia in più
4 anni agoIl presidente di Brembo illustra le strategie di sviluppo per rimanere sempre competitivi su un mercato in forte evoluzione
[auth href=”http://www.worldexcellence.it/registrazione/” text=”Per leggere l’intero articolo devi essere un utente registrato.
Clicca qui per registrarti gratis adesso o esegui il login per continuare.”]Nel lavoro non ha mai “frenato”. E Alberto Bombassei non pensa di farlo neppure adesso a dispetto dei suoi 77 anni, dell’impegno come parlamentare e ispiratore del progetto Industria 4.0. Ma prima di tutto rimane presidente, nonché azionista di controllo, dell’azienda leader al mondo nella produzione di impianti frenanti d’alta gamma: la bergamasca Brembo.
Nel luglio dello scorso anno a Detroit è entrato nella «hall of fame» dell’automobile. Un riconoscimento che soli altri sette italiani si sono visti assegnare. E sono nomi di prestigio assoluto come Enzo Ferrari, Giovanni Agnelli, Ettore Bugatti o Sergio Pininfarina. I suoi freni vengono utilizzati da tutti (tranne uno) i team di Formula 1 e MotoGp. Non solo, per gran parte delle case automobilistiche, a partire da quelle che producono vetture ad alte e altissime prestazioni, come Porsche o Alfa Romeo, senza dimenticare Maserati, Mercedes, Bmw, Audi, Ford e Gm, montare freni Brembo è caratteristica qualificante. Sulle Ferrari, le sue pinze colorate sono da decenni elemento distintivo in ogni modello.
Seduto dietro la scrivania dell’ufficio di presidenza al terzo piano della sede di Stezzano dove lavorano circa 700 dipendenti tra ingegneri, ricercatori e specialisti di prodotto, in quel Kilometro Rosso nato grazie a una sua intuizione e diventato il più significativo parco tecnologico italiano, Bombassei indossa ancora al polso l’orologio che gli regalò Enzo Ferrari. «Non potrò mai dimenticare il giorno in cui mi presentai da lui. Volevo vendere alla Ferrari i nostri freni a disco. Erano i primi anni Settanta, ero ancora un ragazzo e mi tremavano le gambe davanti a quell’uomo che era già un mito. Lui se ne accorse e mi guardò con simpatia. E così accettò di provare i nostri freni. La prova andò bene e l’anno successivo mi regalò l’orologio».
Prima della Ferrari, però, Brembo aveva già conquistato come cliente l’Alfa Romeo…
Nel 1964. Eravamo una piccola impresa che produceva componenti per auto, fondata da mio padre Emilio tre anni prima. L’Alfa, allora ancora dell’Iri, era l’unica impresa italiana a utilizzare i freni a disco, che importava dall’estero perché in Italia non li faceva nessuno. Ebbene, il camion che portava i freni dall’Inghilterra ad Arese andò fuori strada e i dischi furono danneggiati. Toccò a noi ripararli e in alcuni casi costruirne di nuovi. Fu una fortuna. Ma anche la conferma della cultura con la quale siamo sempre cresciuti e che si basa su una frase di mio padre: le cose facili le sanno fare tutti, noi dobbiamo fare cose difficili.
La stessa fortuna, tornando alla vicenda Alfa, che non ebbe con la Fiat?
Non mi ricordo quante volte ho percorso l’autostrada Torino-Milano. E quante porte in faccia presi. Vede, ho il setto nasale deviato a forza di prendere delle porte in faccia… Era la vecchia Fiat, e se non eri torinese o piemontese, in quel giro era difficile essere accettati. Così decisi di cambiare autostrada e prendere quella del Brennero.Un’altra fortuna?
Sì, quella di costruire un importante rapporto con Porsche che poi ci ha aperto tutto il mercato delle case tedesche. E i tedeschi ci hanno aiutato a fare nostra, grazie anche al loro proverbiale rigore, l’importanza della precisione, dell’efficienza ma soprattutto dell’innovazione.Qual è stata l’arma vincente?
Quella che caratterizza da sempre Brembo: innovazione e design italiano, che ci ha portati per esempio a produrre le famose pinze rosse dei freni, belle anche da vedere e diventate una moda, un fenomeno di mercato a livello mondiale. Qualche anno fa un nostro freno, si chiama Ccm (materiale ceramico composito) ha vinto il Compasso d’Oro, un premio in cui tradizionalmente si sono affermate industrie in cui il bello è determinante nella percezione del prodotto. È il premio dei grandi mobilieri, dei designer, degli architetti. Noi l’abbiamo vinto con l’innovazione di un prodotto meccanico. Ma per innovare bisogna investire tanto in ricerca e sviluppo, ai quali destiniamo da sempre circa il 5% del fatturato, ben oltre la media.
Tanti suoi “colleghi” però non investono così tanto. È questo uno dei problemi che ha frenato l’industria italiana?
Gli investimenti in ricerca e sviluppo e in nuovi macchinari fino a oggi sono stati appannaggio di una piccola minoranza. Cito molte volte quanto appare un vero paradosso: il 20% delle imprese italiane produce l’80% del valore aggiunto. E spesso le nuove generazioni di imprenditori, anche in settori classici del made in Italy, hanno preferito vendere. È giusto comunque ricordare che il combinato disposto di super e iperammortamenti, della nuova legge Sabatini, dei bonus sulla ricerca ulteriormente incentivati, ha portato l’Ucimu (l’associazione dei produttori di macchine utensili) ad aggiornare al rialzo (+9-10%) le stime sugli investimenti effettuati nel 2017. E gli investimenti sugli strumenti di produzione fanno sperare in una ripartenza dell’economia italiana.Questa ripresa è davvero così robusta o ancora un po’ fragile? Che cosa bisognerebbe fare per renderla più forte?
Sono sicuro che siano necessarie due componenti per il rafforzamento della ripresa, uno esterno, ossia una maggiore apertura all’Europa, e uno interno, cioè il rafforzamento della componente «istruzione» nel nostro Paese. Ho già espresso, in passato, la necessità di un coordinamento a livello europeo con la creazione di una sorta di «cabina di regia» in capo a un’istituzione Ue. Io ho parlato di un super-ministro che fosse l’omologo a livello comunitario dei ministri dello Sviluppo degli Stati membri; una figura, insomma, che fungesse da raccordo tra le varie iniziative attivate a livello nazionale per convogliare verso obiettivi comuni la nuova rivoluzione industriale. A livello di Paese, invece, adesso il governo sta muovendo passi importanti con il piano Istruzione 4.0 ma già le voci che vedono una riduzione del credito d’imposta per la formazione in attività legate all’industry 4.0, che dovrebbe essere meno generosa rispetto alle prime bozze, è un segnale di debolezza del sistema. Noi abbiamo investito in r&s nel momento massimo di crisi, oggi ne stiamo raccogliendo i frutti e conto che il governo metta in atto tutte le risorse possibili per investire sul futuro dei giovani. In questo modo la ripresa sarà ancora più robusta.
Come vede il futuro delle nostre imprese?
Sono imprese che stanno faticosamente uscendo da una crisi prolungata. Molte non ce l’hanno fatta. Spesso per la congiuntura e l’impossibilità o l’incapacità di rilanciarsi su nuovi prodotti o nuovi mercati che ne ha decretato la fine. Un’azienda deve essere nelle condizioni di creare valore aggiunto e non serve tenerla in vita, anche attraverso il supporto pubblico, se non ha prospettive. Ma qualcosa sta cambiando. Gli incentivi di Industria 4.0 sono stati pensati per offrire opportunità alle imprese che vogliono investire. Solo chi vuole investire e crea lavoro merita incentivi fiscali. Si è chiuso il capitolo degli incentivi a pioggia che sono un pessimo modo per utilizzare le poche risorse che ci sono.Che giudizio dà della strada finora percorsa dal progetto a lei tanto caro di Industria 4.0?
Sono soddisfatto di quanto è stato fatto finora sul fronte della quarta rivoluzione industriale. I risultati sono tangibili, sono ripartiti gli investimenti privati in innovazione, l’industria è tornata al centro del discorso politico ed è stato colmato il gap che vedeva la crescita economica troppo legata alla finanza e ai servizi e poco all’attività manifatturiera. Il merito del «piano Calenda» credo risieda nell’aver ridato spazio nell’agone politico al saper fare degli italiani. E il fatto che siano previsti particolari incentivi per il Sud e per le piccole e medie imprese è un altro segnale di sensibilità nei confronti della particolarità e della «dualità» del nostro sistema industriale. Detto ciò, è importante che ci si dia una mossa sul fronte competence center (gli istituti che dovranno creare un collegamento tra università, centri di ricerca e aziende, ndr), purtroppo, in questo caso, la farraginosità della macchina burocratica italiana si è fatta sentire un po’ di più.Che cosa pensa della nuova legge elettorale? Saprà assicurarci in futuro un governo stabile?
Per chi fa impresa la stabilità è prioritaria e la legislatura che si sta concludendo, pur con le consuete difficoltà che la nostra politica ha spesso denunciato, è riuscita in campo economico a perseguire un’apprezzabile coerenza nell’agire economico. Certo è che attraverso la nuova legge elettorale si riuscirà difficilmente a individuare un vincitore e per questa semplice ragione ne avrei preferito una di ispirazione maggioritaria.
Con l’attuale legge, il rischio di vederci costretti a un altro governo di coalizione è oggettivamente altissimo. Sono però un ottimista e conservo la speranza che, scegliendo le persone giuste, anche l’ennesimo governo «della nazione» ci possa accompagnare nel consolidamento di questa fase di, per ora debole, sviluppo.La vita media delle grandi imprese è di soli 40 anni: fra 100 anni il nome Brembo ci sarà ancora?
Non ho dubbi. Ci saremo. Certo, però, bisogna concentrarsi sul proprio core business. L’industria, la manifattura, deve rimanere il motore dello sviluppo. L’industria crea lavoro, il grande problema di oggi. Pensi a quanto è successo negli Stati Uniti.
Si erano convinti che il futuro fosse la finanza, i servizi. La manifattura era per i Paesi in via di sviluppo. Per fortuna hanno capito in tempo e hanno fatto tempestivamente una conversione a U. Noi siamo un Pase industriale, il secondo in Europa dopo la Germania. È un valore immenso che non va disperso.
E l’Italia ce la farà a non disperderlo e a rimanere una grande economia del mondo?
Il made in Italy è una garanzia di qualità e di bellezza e queste sono caratteristiche che possiamo utilizzare per consolidare e rafforzare la nostra economia. Certo, gli ultimi anni sono stati difficili, e questo si è riflesso sulla nostra capacità di agire sullo scacchiere internazionale. Dobbiamo puntare sulla nostra capacità di innovare e sulla ripresa dei consumi interni, dare fiato alle attività economiche che garantiscano occupazione qualificata e, soprattutto, puntare sulla formazione. Non mi stancherò mai di ripeterlo.
La formazione crea lavoratori qualificati, e i lavoratori qualificati hanno un valore intrinseco che è misurabile con la produttività. Negli ultimi anni l’emorragia dei posti di lavoro causata dalla crisi è stata, in parte, tamponata dal terziario, che richiedeva occupati scarsamente qualificati. Adesso non possiamo più ricorrere a misure tampone senza prospettive di lungo periodo. Il mondo politico ha cominciato a muoversi e io sono fiducioso.[/auth]
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