La finanza scommette sul biotech

Gianpaolo Nodari, amministratore della società di consulenza finanziaria
J. Lamarck, spiega la rivoluzione che sta avvenendo nel settore farmaceutico.
E perché i titoli del comparto stanno sostituendo quelli dell’hi-tech nei portafogli degli investitori più evoluti.
[auth href=”http://www.worldexcellence.it/registrazione/” text=”Per leggere l’intero articolo devi essere un utente registrato.
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Quanto vale il settore in cifre. E che prospettive ha chi ci investe?
I titoli del biotech stanno velocemente sostituendo buona parte dell’hi-tech nel portafoglio degli investitori più evoluti. Il fatturato che oggi è di circa 140 miliardi di dollari, potrebbe raggiungere i 500 miliardi nel giro di cinque anni. Lo spazio di crescita è molto elevato.
Cosa motiva oggi gli investimenti nel settore pharma e biotech?
Con la mappatura del genoma umano, avvenuta nella primavera del 2000 e annunciata dal presidente americano dell’epoca Bill Clinton, si sono aperte le porte per la più grande rivoluzione finora mai avvenuta nel campo della medicina. Una situazione comparabile alla scoperta, nel 1869, del chimico russo Mendeleff con la tavola degli elementi con la quale sono stato ordinati i mattoni della chimica. La sistematizzazione ha consentito, allora, la realizzazione dei composti chimici per trattare determinate patologie. Ora con la mappatura degli elementi biologici gli scienziati sono in grado di capire quali sono le regole di funzionamento del nostro corpo e cosa determina una particolare malattia.
Che cosa cambia?
Con la chimica si interviene sugli effetti di una malattia, cioè a posteriori. Grazie alle biotecnologie si andrà a intervenire sulle cause, anticipando, per quanto possibile lo sviluppo della malattia, perché la mappa del Dna fornisce tutte le informazioni necessarie per passare dalla semplice comprensione dei meccanismi della vita alla possibilità di controllarla. Un esempio è la chemioterapia che è un protocollo basato su sostanze ottenute da sintesi chimica. Pur se molto migliorata nel corso degli anni, la chemioterapia possiede una forte capacità distruttiva delle cellule tumorali ma non è esente da effetti collaterali come la distruzione dei tessuti, delle mucose delle vie gastrointestinali e dei follicoli piliferi. L’effetto è quello di una bomba atomica che colpisce il nostro corpo, distruggendo sia le cellule malate sia quelle sane. La biotecnologia oggi consente di capire meglio quali sono le caratteristiche delle cellule tumorali, perché si formano e come possono essere distrutte. Il farmaco sviluppato su queste tecniche consente l’utilizzo di un agente sviluppato ad hoc per portare la cura direttamente alla cellula malata senza toccare quelle sane.
Perché si dovrebbe privilegiare il comparto in un portafoglio?
Si tratta di un campo che continua a registrare tassi di crescita molto elevati. Dal 2000 a oggi l’indice del settore ha decuplicato il valore confermandosi tra i più performanti nel confronto con semiconduttori, metalli preziosi utilizzati dall’industria, banche, petrolio ed energia. A spingere le quotazioni ci sono diversi fattori come l’invecchiamento della popolazione che comporta un aumento delle prestazioni sanitarie e della spesa farmaceutica. Ma anche la scadenza dei brevetti di molecole tradizionali. Una perdita immensa per le aziende.
Quanto valgono?
Negli ultimi anni sono scaduti brevetti per più di 200 miliardi di dollari e questo ha messo in seria difficoltà le aziende farmaceutiche tradizionali. Anche avendo a disposizione risorse finanziarie importanti per sviluppare nuove terapie non hanno tempo a disposizione. Servono circa dieci anni e un miliardo di dollari per portare un farmaco dalla scoperta alla commercializzazione. I grandi colossi, però, non possono fermarsi e preferiscono acquistare aziende biotech innovative già in possesso di brevetti e di abbondanti pipeline. Insomma, le opportunità sono legate sia ai nuovi composti sviluppati con alte componenti di valore aggiunto sia alle potenziali operazioni di fusioni e acquisizioni del comparto.
Quali sono i farmaci su cui punta il biotech?
Vi sono attualmente più di 4mila farmaci biotech in sperimentazione. I principali target sono il cancro, il trattamento delle infezioni tornato d’attualità dopo l’allarme sulla perdita di efficacia degli antibiotici tradizionali ai quali i batteri sono divenuti sempre più resistenti. Molto cospicui sono poi gli investimenti contro le malattie neurologiche e cardiovascolari.
Passiamo a J.Lamarck. Come selezionate le aziende da mettere in portafoglio?
Il nostro focus è sulle aziende biofarmaceutiche mature e sulle società con prodotti in fase di sviluppo, privilegiando quelle impegnate nella lotta alle patologie più complesse il cui trattamento, molto costoso, è spesso sostenuto dalla sanità pubblica. Altre chiavi di scelta sono il livello del management, le alleanze e le relazioni strategiche con il mondo accademico che garantisce l’accesso in anteprima alle scoperte scientifiche. Senza dimenticare la presenza di alti tassi di crescita e di un’ampia piattaforma tecnologica che potrebbe far diventare i soggetti scelti leader del settore.
E dal punto di vista strettamente finanziario?
Esaminiamo la capitalizzazione, il fatturato, il rapporto price/earnings, il price/sales e price/earnings over growth. Normalmente più del 50% del portafoglio viene allocato fra aziende che hanno caratteristiche da top tier e cioè con alta capitalizzazione e ampio fatturato, a cui si aggiungono posizioni in aziende con elevati tassi di crescita.
Ci sono aree geografiche particolarmente interessanti?
Il nostro posizionamento è globale. Il portafoglio è composto da partecipazione in big pharma americane, giapponesi ed europee. Nel settore biotecnologico è presente in misura superiore l’esposizione in aziende Usa, insieme a diverse partecipazioni in aziende europee, soprattutto danesi e svedesi.
Niente Italia dunque?
Nonostante l’innovazione che contraddistingue le nostre aziende, soprattutto quelle impegnate nelle biotecnologie, la dimensione continua a essere micro o piccola (rispettivamente, meno di 10 e meno di 50 addetti) e circa l’80% del fatturato è riconducibile alle multinazionali con sede in Italia. Sono dati che penalizzano l’allocazione di capitale nei loro progetti nonostante la bontà e le prospettive delle loro ricerche.
Su che quadro può contare il settore italiano?
Secondo i dati della Camera di commercio di Milano ci sono circa 25mila imprese tra farmaceutico, biomedicale e biotech, con 165mila addetti e 33 miliardi di fatturato. Roma è leader per numero di società, circa 2.100 seguita da Milano, Torino, Napoli, Bari e Firenze mentre, in termini di addetti, è Milano a dominare la classifica con circa 33mila lavoratori.
Possono rientrare nel vostro mirino per caratteristiche e reddittività?
La maggior parte delle imprese sono impegnate nella produzione di strumenti medicali, e soltanto un piccolo numero, circa 4mila imprese, sono impegnate nella ricerca e sviluppo nel campo delle biotecnologie e scienze naturali, settore che personalmente ritengo più innovativo e in grado di fungere da propulsore all’economia di un paese.
Siamo ancora una volta fanalino di coda in Europa?
Per una volta un po’ meno. A livello europeo il settore della salute italiano continua a essere competitivo nonostante la frammentazione delle imprese. I limiti sono gli stessi, strutturali, che frenano tutto il sistema Italia. Gli investimenti in ricerca e sviluppo confermano che le aziende biofarmaceutiche italiane hanno una forte predisposizione a investire, ma gli alti costi necessari per portare una molecola dalla scoperta alla commercializzazione fanno sì che ancora per un po’ la biofarmaceutica intesa come macro settore tecnologico sia un affare solo degli Stati Uniti. Che restano l’unico mercato dove sono già presenti multinazionali biotech che capitalizzano in borsa decine di miliardi di dollari.
Investimenti colossali dunque in arrivo. Ma chi sono i protagonisti?
Le grandi case farmaceutiche che crescono con acquisizioni record. Solo a titolo di esempio la Genentech è stata valutata dalla Roche, che l’ha comprata, più di 100 miliardi di dollari. Ma ci sono altri player il cui ingresso nel settore può fare la differenza.
Chi sono?
I giganti dell’high tech come Microsoft e le big company del web come Google. Non si tratta di improvvisazione. Bill Gates, anni fa, rispondendo a una domanda di un giornalista, disse che se non fosse stato impegnato nel settore high tech avrebbe certamente voluto occuparsi di biotecnologia perché la rivoluzione medica emergente avrebbe avuto, per il futuro dell’umanità, lo stesso impatto dell’high tech.
Ci sono esempi dell’invasione di campo?
Google recentemente ha avviato una collaborazione col gigante farmaceutico Sanofi per la ricerca sul monitoraggio e la cura del diabete con l’obiettivo di eradicare la malattia in futuro. Anche Apple si sta cimentando nel settore sanitario con la costruzione di un network tra gli ospedali che eseguono studi e ricerche per le cure per malattie come il diabete, il Parkinson e le malattie cardiovascolari. Obiettivo è fare in modo che i file di tutti i pazienti del mondo siano collegati a una rete centrale per costituire una base di studio alla quale applicare modelli di ricerca. Infine Facebook ha investito 3 miliardi di dollari per realizzare un grande centro per la ricerca biomedica. Un luogo nel quale ricercatori e ingegneri delle università californiane di Berkeley, San Francisco e Stanford lavoreranno insieme per sviluppare nuovi strumenti e tecnologie per trovare una cura per tutte le malattie entro la fine del secolo.
C’è un problema a prima vista. Se sale l’aspettativa di vita dell’uomo, grazie a farmaci di ultima generazione, cresce anche la spesa sanitaria. Cosa non facile da mantenere oggi. Come la mettiamo?
Distinguiamo. A causa dell’invecchiamento della popolazione la spesa sanitaria passerà dal 16% attuale a circa il 20% della ricchezza nazionale. Ma le cure farmacologiche garantite dalla ricerca biotech consentiranno a un paziente di evitare un ricovero ospedaliero, un’operazione o una riabilitazione. Dunque avremo una maggiore incidenza della spesa farmaceutica sul totale di quella sanitaria ma, dall’altra parte, anche un contenimento di quest’ultima. Un recente studio ha evidenziato come un dollaro di spesa aggiuntiva per farmaci corrisponda a 6,2 dollari di risparmio netto di spesa sanitaria. Ma anche che un giorno di ricovero equivale  a quasi 3 anni di assistenza farmaceutica, e che un euro di vaccino corrispondano a 24 euro per curare chi si ammala. Il farmaco è il migliore alleato della sostenibilità del sistema sanitario.
Torniamo all’investitore che si sta ancora leccando le ferite della bolla della dot economy, non è che anche il biotech può seguire lo stesso destino?
I rischi della speculazione ci sono sempre. Ma a mio avviso la crescita del biotech è solo all’inizio. A differenza del 2000, anno nel corso del quale i prezzi delle aziende di internet e dell’high tech sono stati spinti alle stelle da masse di investitori che spesso conoscevano poco o nulla delle aziende in cui investivano, la biotecnologia, al momento è quasi completamente assente nei portafogli degli investitori privati ed è estremamente sottopesata dagli istituzionali. I grandi movimenti di investimento in biotecnologia sono una priorità solo dalle case farmaceutiche, consce del fatto che la loro sopravvivenza potrà essere garantita soltanto da grandi sforzi e investimenti nelle moderne tecnologie basate sulla biologia molecolare. J.Lamarck definisce le aziende farmaceutiche con il termine di insider proprio per rappresentare l’investitore che gode di informazioni privilegiate sul mercato. Dunque se questi insider sono disposti a comprare aziende biotech al doppio o al triplo dell’attuale valore di borsa significa che nonostante tutto intravedono ancora grandi potenzialità di crescita.
Investimento che può essere vincente nel lungo periodo?
Le premesse ci sono e sono supportate anche dai numeri. Oggi con i farmaci tradizionali riusciamo a curare soltanto il 10% delle malattie e ci sono più di 4mila nuovi farmaci biotech in fase di sperimentazione per malattie come cancro, Alzheimer, malattie cardiovascolari, diabete, sclerosi multipla. Se affrontato con cognizione e professionalità, e soprattutto con una visione di medio-lungo termine, l’investimento in biotecnologia rappresenta un’opportunità d’investimento paragonabile agli investimenti fatti nelle case farmaceutiche tradizionali negli anni 60-80.
Nel breve termine cosa vede?
Il 2016 è stato particolarmente burrascoso per il dibattiti elettorale statunitensi che si è polarizzato sui prezzi dei farmaci ritenuti troppo elevati. Un’incertezza che fornito agli investitori un buon motivo per prendersi una pausa dopo i lunghi rialzi degli anni precedenti, il 2017 ha visto una ripresa dei corsi con la sconfitta elettorale dei democratici che ha alleviato il clima di tensione sul biopharma. Le incertezze sono legate alle ipotesi di abrogazione e rivisitazione dell’Obamacare che potrebbero ancora influenzare il settore. Ma la gestione della sanità da parte dell’amministrazione repubblicana non richiede cambiamenti nei prezzi dei farmaci. La stabilità ha consentito all’industria di focalizzare i suoi sforzi di ricerca e sviluppo per trovare farmaci in grado di fornire benefici clinici. Questo ha rimesso in moto il trend rialzista.
Sono sempre gli Usa a guidare i movimenti del settore?
Sì. La riforma fiscale di Trump può influenzare ancora il settore della biotecnologia, e non tanto per gli sgravi fiscali che non rappresenterebbero un grande cambiamento visto che le società hanno già tassi di imposizione medi del 20-25%, ma per gli incentivi offerti per il rimpatrio dei capitali detenuti dalle aziende oltre i confini americani.
Molte società utilizzeranno le risorse per dare valore agli azionisti, con acquisti di azioni e dividendi, ma anche per operazioni di merger&acquisition che potrebbero consentire alle big pharma di rafforzare le linee con nuovi prodotti e, alle piccole e medie società biotech, di accedere alle competenze e al personale di aziende più consolidate per aumentare i loro sforzi di distribuzione. A spingere il mercato potrebbe essere anche la nomina a commissario della Food and drug administration di Scott Gottlieb. Una persona pragmatica che spingerà senz’altro per una minore regolamentazione dei farmaci e per approvazioni più rapide.
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